“Quando essere innamorate significa soffrire, stiamo amando troppo. Quando nella maggior parte delle nostre conversazioni con le amiche intime parliamo di lui, dei suoi problemi, di quello che lui pensa, dei suoi sentimenti, e quasi tutte le nostre frasi iniziano con ‘lui…’, stiamo amando troppo.
Quando giustifichiamo i suoi malumori, il suo cattivo carattere, la sua indifferenza, o li consideriamo conseguenze di un’infanzia infelice e cerchiamo di diventare la sua terapista, stiamo amando troppo.
Quando leggiamo un saggio divulgativo di psicoanalisi e sottolineiamo tutti i passaggi che potrebbero aiutare lui, stiamo amando troppo.
Quando non ci piacciono il suo carattere, il suo modo di pensare e il suo comportamento, ma ci adattiamo pensando che se noi saremo abbastanza attraenti e affettuose lui vorrà cambiare per amor nostro, stiamo amando troppo.
Quando la relazione con lui mette a repentaglio il nostro benessere emotivo, e forse anche la nostra salute e la nostra sicurezza, stiamo decisamente amando troppo”.
“Donne che amano troppo”, il libro best seller dell’autrice e psicoanalista Robin Norwood, si apre così. Con delle affermazioni tanto semplici e dimesse, quanto puntuali e realistiche. Ma come mai l’amore può sfociare in troppo amore?
Generalmente, nella fase iniziale della relazione tra due persone -cosiddetta dell’innamoramento- in ogni coppia e in ogni membro della coppia, si può scorgere un certo grado di dipendenza affettiva sana, che si palesa con un profondo senso di fusionalità, di intimità e di passione. Entrambi manifestano euforia, tolleranza, desiderio, dipendenza emotiva e fisica, e tendono a riorganizzare le proprie priorità in funzione dell’altro. Eppure, più il rapporto diventerà stabile, meno essi avvertiranno il bisogno di dipendere dal partner e, dunque, ai due innamorati rimarrà una piacevole percezione di autonomia: riusciranno ad essere un noi, pur mantenendo integre le proprie singole individualità. Qualora, al contrario, tutti questi aspetti assumessero una connotazione di rigidità e pervasività, e la presenza dell’altro diventasse una necessità imprescindibile, arrivando a negare i propri bisogni e a rinunciare al proprio spazio vitale, considerando il partner come unica fonte di gratificazione, allora il rischio sarebbe quello di scivolare nel versante più anomalo del legame, la cosiddetta dipendenza affettiva patologica (o love addiction).
La dipendenza affettiva patologica rappresenta quella forma di amore assoluto, ossessivo, simbiotico e stagnante che, vissuto al pari della droga, conduce la donna a sacrificare ogni spinta evolutiva e qualsiasi altra forma di gratificazione, sebbene il partner sia tutt’altro che gratificante. Il nucleo centrale della donna che sviluppa una dipendenza affettiva patologica è un livello di autostima molto basso: chi soffre di love addiction, invero, sente che la propria felicità dipende completamente ed esclusivamente dal supporto e dalla vicinanza di un’altra persona, alla quale mendica attenzioni e protezione; la dipendente affettiva patologica, dunque, avverte un estremo bisogno di rassicurazione, tanto da essere indotta a perdere la propria individualità, a favore di un altro che rappresenta il solo elemento di appagamento possibile.
Colei che sviluppa una dipendenza affettiva patologica, è attanagliata dal timore che vi sia il rischio (reale o immaginato) di essere abbandonata dal partner; così, conseguentemente, ella cercherà di fare di tutto pur di continuare a mantenere integro il legame, quel tipo di legame, funzionale a garantire il proprio equilibrio psichico. Questo tipo di atteggiamento ha, ovviamente, natura inconscia ed è radicato nell’infanzia, nella relazione che la dipendente affettiva patologica ha sviluppato con i propri caregivers. I genitori, o coloro che si sono presi cura di lei bambina, le hanno inconsapevolmente trasmesso il messaggio di essere immeritevole di ricevere amore, oppure che i suoi bisogni non fossero importanti. Da qui, la sopravvalutazione irrealistica dell’altro (e della sua indispensabile presenza) e la percezione inefficace di sé.
Ma i modelli comportamentali che ogni essere umano sperimenta attraverso le relazioni primarie, rimangono indelebilmente impressi nella vita di ognuno e poiché ogni persona tende a riprodurre nella vita adulta ciò che ha conosciuto nell’infanzia, la dipendente affettiva patologica ricercherà relazioni tali che le permettano di ricreare il medesimo cliché, in cui potrà incarnare un ruolo sottomesso e di compiacimento nei confronti dell’altro, così da scongiurare il rischio di essere rifiutata. Il grande pericolo, in questi casi, è quello di scambiare la dipendenza con l’amore, fino a sfociare in vere e proprie relazioni tossiche, che mettono a repentaglio l’incolumità fisica e psichica della donna. Non di rado, infatti, la dipendente affettiva patologica cede all’accettazione del disprezzo, dell’abuso e della violenza, agiti dal proprio compagno, come se si trattasse di una condizione di “normalità”: la sottomissione e la rinuncia della propria dignità, pur di non rivivere il senso di abbandono già sperimentato durante l’infanzia, sono proprio il frutto dei bassi livelli di autostima.
Ciò stante, si può ben intuire che la scelta del partner non è qualcosa di casuale: la dipendente affettiva patologica sceglierà inconsapevolmente una persona che, attraverso i suoi atteggiamenti di evitamento, anaffettività, insicurezza, gelosia, possessività, manipolazione, abuso e/o violenza, vada a corroborare l’immagine negativa che ella ha sviluppato di sé. Ne deriva che anche il partner scelto non sarà, per ovvi motivi, scevro di problematicità: si tratterà, con estrema probabilità, di una persona che, per proprie dinamiche interne, avrà bisogno di porsi come rifiutante, sfuggente o sprezzante nei confronti della donna.
La dipendenza affettiva patologica, pertanto, per sua natura intrinseca non può essere definita quale fenomeno che riguarda il singolo; al contrario, inevitabilmente coinvolge entrambi i protagonisti della coppia: se, da un lato, vi è una partner che dedica tutta se stessa per compiacere e rendere felice l’altro elemosinando le sue attenzioni e il suo “amore”, dall’altro lato avremo un partner che, attraverso la bramosia della prima, riuscirà a rafforzare la percezione di sé come dominante.
Per quanto possa sembrare paradossale, dunque, la dipendenza affettiva patologica si alimenta del rifiuto e della negazione di sé, e la donna rimane ingabbiata nell’irragionevole ambizione di riuscire, ad ogni costo, a farsi amare da chi costantemente la respinge e a salvare colui che non vuol essere salvato. Al contrario di quanto si possa pensare, tuttavia, in questo comportamento apparentemente irragionevole e, per molti versi imprudente, non vi è alcun masochismo psichico alla base, nessun piacere nel provare sofferenza: si tratta, piuttosto, della inconsapevole e illusoria speranza di suturare l’ancestrale ferita narcisistica, provocata dall’assenza di un Amore sano e nutriente.