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Gioco dunque sono!

Nonostante il termine gioco -di derivazione latina- significhi scherzo, giocare è l’attività più impegnativa e più importante che un bambino possa compiere. Si tratta di un’attività volontaria e intrinsecamente motivata, che non caratterizza esclusivamente la vita del “cucciolo d’uomo”: anche gli adulti e gli animali giocano, con finalità ricreative. Eppure, è stato da sempre considerato una peculiarità dell’età infantile: è a partire da questo pensiero che è stato possibile riconoscergli un valore educativo. Lo Stomachion di Archimede, progenitore dell’attuale Puzzle, è stato un esempio di quanto il gioco -oltre a divertire- riuscisse anche ad “insegnare”.

L’attività ludica è stata oggetto di studio di tante discipline, dalla Filosofia alla Sociologia, ma è stata la Psicologia che, più di ogni altra, ha intravisto nel gioco la via règia per lo sviluppo cognitivo e per la costruzione della personalità del bambino.

Il primo fra tutti ad occuparsi dell’argomento è stato Sigmund Freud, il quale ha ricondotto la funzione del gioco al fenomeno della “coazione a ripetere”. La coazione a ripetere è una tendenza inconscia che spinge la persona a reiterare alcuni comportamenti schematici in maniera coattiva, facendo sì che il rimosso venga ripetuto come esperienza attuale, piuttosto che essere ricordato come esperienza del passato.
Allo stesso modo, secondo Freud, le azioni ludiche -spesso schematiche e ripetitive- svolgono una funzione catartica: giocando, il piccolo rimette in scena simbolicamente esperienze psichiche dolorose e prova a ripararle, lasciando emergere nel gioco tutto ciò che nella sua storia emotiva non è stato metabolizzato. Grazie al gioco, egli si concede l’opportunità di elaborare psichicamente le proprie angosce e di sublimare i propri traumi.

Partendo dal presupposto che il bambino raccolga oggetti dal mondo esterno per poterli usare al servizio della propria realtà psichica, Donald Winnicott ha proposto una visione alternativa dell’attività ludica.
Il lattante, che fin dalla nascita vive in uno stato di fusione totale con la realtà esterna ed è completamente dipendente dalle cure materne, pian piano deve emanciparsi da questo stato fusionale per poter percepire l’Altro da sé, passando da una realtà soggettiva ad una realtà oggettiva. Per compiere questo passaggio, egli si serve degli oggetti transizionali (i peluches, la copertina, etc.) e dei fenomeni transizionali (il gioco): questi costituiscono un’area che non appartiene né al mondo interno, né al mondo esterno, ma si tratta di un’area che, in via del tutto illusoria, continua a tenere uniti madre e bambino. Quest’area, detta spazio potenziale, svolge una duplice funzione: da una parte offre al bambino la sicurezza necessaria per controllare l’angoscia derivante dalla separazione dalla madre, dall’altra parte consente di sviluppare la creatività.
Uno degli aspetti innovativi che Winnicott riconosce al gioco, infatti, è proprio la sua natura creativa: la creatività, che si sviluppa direttamente dalla possibilità offerta dal gioco di elaborare contenuti inconsci e minacciosi, è la modalità attraverso la quale il bambino si pone in modo più libero di fronte alla vita. La creatività, in sostanza, è la chiave di volta per esprimere l’intero potenziale della propria personalità e per far emergere il proprio Sé.

Anche Jean Piaget ha offerto il proprio contributo sull’argomento, ma il suo punto di vista si allontana dal paradigma interpretativo della psicoanalisi, per focalizzarsi soprattutto sulla correlazione esistente tra l’attività ludica e lo sviluppo mentale: poiché il gioco è l’azione più spontanea del pensiero infantile, esso rappresenta lo strumento primario per poter studiare i processi cognitivi del bambino. Piaget ha suddiviso tre tipologie di giochi. I giochi di esercizio, che rappresentano una forma primitiva di gioco e prevalgono nel primo anno di vita: essi consentono al bambino di imparare a controllare i movimenti e a coordinare i gesti attraverso la ripetizione di attività acquisite nel corso del tempo. I giochi simbolici, che si possono osservare tra i 2 e i 6 anni, quando il bambino acquisisce la capacità di rappresentare qualcosa che non è realmente presente, attraverso il far finta di, che presuppone proprio un’imitazione differita. Infine, intorno ai 7 anni -periodo della vita in cui il bambino comincia a vivere più intensamente il rapporto con gli altri- compaiono i giochi di costruzione: essi si caratterizzano per una maggiore aderenza alla realtà, proprio perché la vita di gruppo confronta il bambino con delle regole che è tenuto a rispettare.
Il gioco, dunque, è il protagonista per eccellenza della maturazione intellettiva, aiuta a sviluppare le capacità di confronto e di relazione, oltre a consentire la strutturazione della personalità. Tutto ciò accade attraverso due processi complementari e contemporanei: uno detto di assimilazione (nuovi elementi vengono “assorbiti”, elaborati e poi inseriti in uno schema comportamentale già acquisito), l’altro detto di accomodamento (di fronte a questi nuovi elementi, gradualmente è lo schema comportamentale già acquisito che si modifica).

Il gioco, evidentemente, non è mero passatempo, piuttosto è alimento del quale si nutrono mente e corpo insieme: esso aiuta il bambino (e l’adulto) ad acquisire la libertà di disporre di sé e di trovare la propria collocazione creativa nel mondo reale. È la forma di comunicazione che il bambino privilegia, è lo strumento attraverso il quale si rapporta a se stesso e agli altri, e che gli permette di imparare a gestire le proprie emozioni.
Ciò conferma il concetto secondo il quale il gioco sia un’attività con un grado di serietà non sottovalutabile: per il bambino, il gioco potrebbe essere paragonato ad un vero e proprio lavoro; per lui giocare è tutto e, attraverso questa attività, riesce ad esprimere se stesso.

Il gioco, perciò, non rappresenta un’attività, ma è la attività per eccellenza, attraverso la quale il bambino impara e, imparando, cresce.
Tuttavia, crescendo, lo spazio dedicato al gioco si restringe sempre di più, fino a diventare una piccola parentesi che, di tanto in tanto, si inserisce nella narrazione della vita adulta. Il gioco, resta comunque un elemento nodale per tutto l’arco di vita, ed è sulla base di questa indispensabile, divertente e seria attività che si costruisce l’intera esistenza dell’uomo.


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Dott.ssa Psicologa Psicoterapeuta Maria Teresa Allemma

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